domenica 8 maggio 2011

Roma, 1° Maggio 1891



“In quel giorno gli operai dovevano tenere il grande comizio in piazza Santa Croce in Gerusalemmea Roma, e i rinforzi di truppe venuti di fuori, non rassicuravano punto. Fino dalla mattina di quel giorno nelle vie, ove non si trovava una bottega aperta, circolavano in fretta pochissime persone, e nelle ore pomeridiane tutta Roma era avvolta in un silenzio di tomba; e neppure nelle strade più centrali si sentiva il rumore di una carrozza; soltanto lassù nell’estremo lembo del quartiere dell’Esquilino, si addensavano i soldati e la folla irrequieta. Alle 11 allievi carabinieri, fanteria e bersaglieri cingevano da tre lati la piazza Santa Croce in GerusaIemme; nel centro vi erano altre 4 compagnie e numerosissimi carabinieri, nel fondo della piazza due squadroni di Foggia cavalleria. Il palco per la presidenza del Comizio era stato eretto quasi nel centro della piazza. Alle 2 su quel palco vi erano gli onorevoli Ettore Ferrari, Maffi, Barzilai, il consigliere comunale Bianchi, Felice Albani, e l’avvocato Lollini, promotore del Comizio. Intanto giungevano, precedute da bandiere, tutte le rappresentanze dei circoli sovversivi «XX dicembre», «L. Rarsanti», «Valzania», «Unione Emancipatrice» ecc.. Quest’ultima aveva la bandiera verde spiegata con l’iscrizione «Vivere lavorando, morire combattendo». La «Federazione anarchico-socialista» fu accolta con applausi. Il Garofolo dichiarò aperto il comizio e subito prese la parola l’operaio Latella assicurando che per migliorare le condizioni degli operai era indifferente la forma di Governo. Egli invitò i compagni ad organizzarsi, ma a tenersi lontani dalle idee politiche. Le sue parole calme, che stonavano dopo tutta la propaganda violenta fattasi negli ultimi tempi, furono zittite. Dopo il Latella parlò il Piacentini in senso più accentuato; e per conseguenza fu più ascoltato. In quel momento Amilcare Cipriani fu condotto sui palco fra gli evviva e prese la parola il Liverani, anche più violento del suo predecessore. Egli disse: «Bisogna fare una guerra a coltello a quelli che ci opprimono. È tanto tempo che domandiamo legalmente i nostri diritti: otteniamoli con la forza». Salì allora sul palco il Bardi, un giovinotto anarchico; e prese a dire: «Questo giorno desiderato e finalmente venuto. In modo solenne per noi affamati, sfruttati da una classe che tutto ci toglie a viva forza, perfino i nostri fratelli, che ci fanno siepe d’intorno armati di baionette. Ma non ci sgomentiamo se questi poveri schiavi saranno costretti a scaricare i loro fucili contro di noi: il nostro sangue sarà seme che frutterà». «Questa classe dominante, frutto della corruzione e della infamia, deve essere abbattuta. Noi operai, oggi riuniti e uniti, sentiamo la forza di questo giorno solenne, non solo per noi, ma per tutto il mondo. Oggi forse qualcuno di noi sarà sacrificato per questa causa; a quelle vittime mandiamo un saluto! Alle nostre miserie, per cui imploraste mercè dal Governo, questi rispose inviandoci nuovi reggimenti. Ma non li temiamo. Un ministro disse in Parlamento là dove non si fanno che leggi dannose all’umanità, disse che la questione sociale essi si trovavano nella impossibilità di risolverla. Accogliamo quella dichiarazione perché ci dice che dobbiamo fare da noi». Dopo essersi scagliato contro la stampa pagata con i fondi segreti, e aver alluso al maggio fiorito, pieno di profumi floreali, esclamò: «Spandiamo ora il nostro sangue per l’umanità; sacrifichiamoci, e lasceremo un’aureola per le generazioni future. È tempo di farla finita; decidetelo voi!». La folla scoppiò in unanimi applausi, che si convertirono in fischi appena che il Moschini, altro operaio, volle consigliare la calma. I cavalleggeri, che erano scesi da cavallo, a questo punto, sentendo ripetutamente gridare: «Viva la rivoluzione!», salirono in sella. Amilcare Cipriani prese la parola per raccomandare la calma: «Lavoratori, — egli gridò — oggi in questa piazza, circondati dalle baionette del dispotismo, ci siamo riuniti per proclamare insieme ai nostri fratelli del mondo intero la rivendicazione dei nostri diritti, l’emancipazione del lavoro». «È ora di finirla» — urlano dalla folla. «Qui convenuti, — continuò l’oratore — animati da una stessa fede, provate, con la presente manifestazione, a coloro che sono al potere, ai padroni, ai capitalisti, che se domani vorrete, sarete i padroni della intera umanità! Oggi siete chiamati a provare quanti siete di numero e quanto tolleranti. Quando sarete stanchi, questa gente pasciuta dovrà cedere dinanzi a voi per amore o per forza». Il Cipriani concluse così il suo discorso, che parve moderato in confronto degli altri: «Sentite un uomo che non vi ha mai tradito. Organizzatevi e faremo facilmente sparire la microscopica falange dei neutri pasciuti. Se oggi siete venuti qui inermi, preparatevi a venirvi un’altra volta non con bandiere inutili, ma con qualche altra cosa fra le mani». L’eccitamento degli animi, dopo questi discorsi, che nessun delegato aveva ordine di far cessare, cresceva sempre fino a divenir frenesia. Un giovane operaio spinse la sua bella moglie, certa Elena Mulinelli, sul palco affinché parlasse, ma essa non seppe emettere altro che un: «Evviva la rivoluzione!» e si ritirò impaurita dagli urli. Dopo poche parole, pronunziare da due operai, salì la tribuna l’anarchico Venerio Landi: «Qualunque momento è buono — egli disse — per misurare le nostre forze. L’organizzazione è impossibile ad ottenersi e vano sperarlo. Andiamoci a misurare oggi, domani, quando vorrete!». «Oggi! oggi!» grida la folla. «E sia!» urlò il Landi, e fece per iscendere dal palco, mentre la folla alzava le mani urlando. L’ispettore Marchionni a questo punto fece squillare la tromba e ordinò lo scioglimento del Comizio. Tutti si davano a fuggire, il gruppo delle bandiere si sparpagliò, le bandiere furono strappare dall’asta, e intorno i soldati serravano le file; i bersaglieri scaglionati nella piazza si uniscono, formano due linee verso S. Croce in Gerusalemme, e si avanzano a passo di carica verso la folla. A un tratto però si fermano per lasciare il passo a due squadroni di cavalleria Foggia, che si avanzano a mezzo galoppo. Tutti fuggivano, una parte della folla si riversava nella strada interna delle mura, un’altra invadeva il palco della presidenza, e intanto le linee dei soldati si stringevano sempre più. La guardia Raco cade uccisa da una pugnalata. Amilcare Cipriani si getta sui carabinieri che facevano la guardia attorno ai palco e ne afferra uno per il bavero; quegli volgendosi lo ferisce; ovunque s’impegnano zuffe; i tumultuanti salgono sulle mura della città per evitare le cariche, e di lassù e dalle case ove molti si sono rifugiati, piove sui soldati una grandine di sassi, di pietroni, di lavagne e di piatti. In via Emanuele Filiberto i rivoltosi formano con carri e con masserizie le barricate, e in altri punti punzecchiano con coltelli, con chiodi, con lime i cavalli dei soldati, che sono riusciti ad asserragliarli. Ad ogni carica fuggono, si sbandano, e subito tornano compatti a insultare e molestare i soldati. La Camera teneva seduta in quel giorno, e gli on. Sola e Maffi interrogarono sui fatti di piazza Santa Croce in Gerusalemme il Ministro dell’interno, il quale rispose che le provocazioni erano partite dagli anarchici, e che i soldati avevano dato prova di grande pazienza. L’on. Ferrari prese la parola per accusare un ufficiale dei carabinieri di aver fatto inginocchiare l’on. Barzilai e di avergli gridato «vigliacco», dopo averlo ferito con una piattonata alla testa. Il cappello del deputato di Roma fu portato alla Camera ed esaminato, ma dalla vivace polemica che sorse rispetto a quel fatto, si venne ad appurare che l’ufficiale non aveva riconosciuto nel fuggiasco il Barzilai, e tanto meno lo aveva fatto inginocchiare. Per quei fatti dolorosi furono praticati più di 200 arresti. Anche Amilcare Cipriani, ferito alla testa, era tenuto in arresto in una casa in via Foscolo. Fra gli arrestati vi era il Moscardi, che vantavasi dell’uccisione della guardia Raco; il carrettiere Piscistrelli fu un’altra delle vittime. Tutti gli arrestati erano armati, e certi che avevano il revolver possedevano buona provvista di munizioni, segno certo che la ribellione era stata preparata.
Mentre su all’Esquilino avvenivano questi fatti, e tutto quel quartiere era guardato dai soldati, e le case piantonate, nel resto della città regnava ancora il solenne silenzio del pomeriggio, che aveva infuso tanto panico nei cittadini, e s’ignorava che cosa fosse avvenuto, né speravasi di aver notizie nella serata, perché le tipografie erano chiuse, e nessun giornale poteva pubblicarsi per la vacanza del personale.

Emma Perodi, “Roma italiana 1870 – 1895”, Centro Romano Editoriale, pag. 72


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